LA POESIA DEI SIGNA e IL PENSATO DI CACCIARI.

 

Il concetto di SIGNA di Morosin si può mettere in stretta relazione con le riflessioni di Massimo Cacciari sul linguaggio e sulla poesia in occasione della Lectio Magistralis alla Sala delle Cariatidi, Milano, del 14.1.2008

“la Poesia mostra, esprime, apre quella che è la dimensione più originaria del linguaggio; essa mostra esattamente che il linguaggio non è originariamente al servizio della significazione, non serve originariamente a definire, a determinare”

Le opere SIGNA di Morosin esistono per rispondere a una necessità profonda: quella di offrire al pubblico la possibilità di interagire con lo spazio, il tempo e la memoria culturale. La loro immaterialità e la loro fruizione tramite realtà aumentata evidenziano come queste opere non abbiano bisogno di una fisicità tradizionale per esistere, ma emergano come segni che dialogano con i luoghi e con chi li attraversa, proprio come la poesia si giustifica nella sua stessa esistenza. 

Anche i grandi disegni territoriali di Morosin, pur essendo narrazioni site-specific georeferenziate che toccando riferimenti naturali o antropici scelti dall’artista con l’errore di pochi metri su grandezze di centinaia di chilometri, sfuggono a una funzione di mera significazione perché appartengono a una dimensione più profonda del linguaggio, dove questi tracciati non definiscono, ma evocano e mostrano.

Il linguaggio SIGNA non è uno strumento che usiamo, ma una dimensione in cui siamo immersi. 

Così i SIGNA non sono semplici immagini o percorsi da visualizzare con l’app che l’artista stesso ha creato, ma spazi in cui il fruitore entra fisicamente e simbolicamente. L’osservatore non si limita a vedere l’opera, ma la attraversa, contribuendo con la propria traccia, che può condividere direttamente con l’app sui social. Questo aspetto è affine alla poesia che, non si limita a comunicare un significato, ma coinvolge chi legge in un’esperienza che va oltre la comprensione razionale. Allo stesso modo, i SIGNA trascendono la visione statica, frontale e diventano un’esperienza immersiva e partecipativa.

I SIGNA rifiutano anch’essi la definizione tradizionale di opera d’arte come oggetto fisico confinato. Essi non sono contenuti entro confini materiali o museali, ma si espandono nello spazio reale attraverso la tecnologia, dissolvendo la separazione tra arte e ambiente. Questa libertà dai vincoli fisici e concettuali rispecchia la potenza originaria del linguaggio SIGNA che non serve a descrivere, ma a evocare, a far emergere nuove possibilità di senso.

L’opera SIGNA “Diamante e Mosca” nei Giardini delle Tuileries o “Annunciazione” visibile dal MOMA non impongono un significato, ma si pongono in dialogo con questi luoghi, ormai storici, integrandosi e, al contempo, interrogandone la memoria e la funzione attuale. Questo dialogo è simile a quello della poesia che, secondo Cacciari, si confronta con la critica che le è immanente, non offrendo risposte definitive ma aprendo spazi di senso. I SIGNA non “parlano” in modo univoco, ma invitano chi li esperisce a una riflessione aperta e soggettiva.

L’immensità di alcuni SIGNA, come “Signa World” di 92.000 km, richiama quella dimensione di indeterminatezza propria della poesia. Così come la poesia non può essere ridotta a un significato univoco, i SIGNA, nella loro vastità e frammentazione, sfuggono a una comprensione totale, invitando alla scoperta di dettagli nascosti e percorsi personali.

I SIGNA di Morosin e la poesia si incontrano nell’essere esperienze che vanno oltre il visibile e il definibile. Entrambi rivelano la necessità di un linguaggio che non descrive, ma evoca e coinvolge, un linguaggio che non è un semplice strumento, ma una dimensione viva in cui ci si immerge. I SIGNA non sono oggetti da contemplare, ma spazi da attraversare, da abitare, come la poesia non è solo da leggere, ma da vivere.